Parole nuove, vita nuova


26 Marzo 2020 – Corona? E pensavamo alla regina. Curva? Un luccichio negli occhi per gli amanti della Formula Uno o per gli estimatori delle fanciulle… Picco? Era per gli appassionati di montagna. Positivo era qualcosa di bello, ora non lo è affatto. Il tampone evocava fastidi femminili (o al massimo, un incidente in auto) e il ventilatore, l’indispensabile accessorio contro l’afa stile “Antò, fa caldo!
In poche settimane, anche le parole che ci raccontano, sono cambiate: siamo passati da simpatico ad asintomatico, da aperitiviamo a draconiano, dalla settimana bianca al distanziamento sociale, trasformato la Quaresima in una quarantena. Forzata. Dai selfie al droplet, dalle maschere di Carnevale alle mascherine (introvabili).
Autocertificazione, pandemia, smart working, corona, asintomatico, quarantena, zona rossa: fino ad un mese e mezzo fa, erano termini semisconosciuti, poco usati (ah quale fortuna avevamo!); la Corona era il simbolo di Re e Regine, al massimo (e ci ho anche scherzato su, accidenti, l’antico significato del mio nome *)

Così come è stata letteralmente stravolta la nostra vita, allo stesso modo lo sono anche le parole che la definiscono e a raccontano. Impensabile, a gennaio, gioire per il fatto di aver trovato poca coda al supermercato, per l’unica spesa settimanale, dove ci si è recati armati di guanti di plastica, amuchina e mascherina (o sciarpa) e gioire per aver reperito l’introvabile lievito di birra; così com’era impensbile scrivere un articolo usando le parole sopraccitate. Parole che, purtroppo, in pochissimo tempo sono invece diventate d’uso comune…

Le parole cambiano, quando cambia il mondo.

Man mano che mi tornavano alla mente, ho cercato di radunarle, quasi a voler riprodurre un manuale minimo, una sorta di “nuovo vocabolario ai tempi del coronavirus”, (quasi certa di non essere stata esaustiva), e di capire come queste definiscano il nostro quotidiano, mescolandole un po’.
Paziente Zero. Manzoni lo avrebbe definito il primo untore, poveraccio: scrive infatti, nel cap 31 dei suoi (tornati di moda) Promessi Sposi che “nella Milano invasa dalla peste, vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna” Oggi – come allora – è di fatto introvabile. Non è stato ancora chiarito il meccanismo né tracciata la prima persona giunta nel nostro Paese con il virus. L’uomo di Codogno, identificato come il Paziente 1, probabilmente (in base alle recenti analisi matematiche più accreditate) è il Paziente #200 o #300. Tutti asintomatici, peraltro. E se fino a due mesi fa “asintomatico” era termine d’uso strettamente medico, oggi è diventato una sorta di carta d’identità (pericolosa, specie se l’asintomatico è positivo e, a sua insaputa, porta in giro, in tasca, col cellulare e il portafoglio, anche il maledetto virus e la pandemia). Ma se, con buona probabilità, non lascerà in giro sparsi “chissà dove” né cellulare né telefono, purtroppo non è così per il virus, che l’ignaro potrebbe seminare ovunque e passarlo ad altri, se non rispetta il droplet, cioè la distanza minima necessaria per impedire che le “goccioline di saliva” non arrivino ad altre persone starnutendo, tossendo o semplicemente parlando. Droplet, letteralmente, significa “gocciolina”, in inglese, che è il mezzo di trasporto preferito del maledetto virus. E come a fa uno a sapere di essere positivo, cioè che nelle sue goccioline da starnuto c’è potenzialmente il virus? Se un tempo uno starnuto attirava qualche distratto “Salute”, oggi è meglio darsela a gambe, perché a starnutire in pubblico (nel gomito!) si rischia il linciaggio.

Anche il termine positivo, non è più così “positivo”, purtroppo. Peraltro, l’eventuale positività si scopre attraverso il tampone (medico), che non ha niente a che vedere con le mensilità muliebri né con incidenti automobilistici.
Mascherine: Non era neanche finito il carnevale, quando alla moda delle maschere, – ben più scanzonate e piacevoli – si sono sostituite le mascherine chirurgiche, sui nostri volti. Non più le maschere di pirandelliana memoria. Ora se ne vedono davvero di tutti i tipi e gusti: visto che quelle “ufficiali” sono da giorni introvabili sul mercato, l’inventiva delle persone non si è fatta trovare impreparata: con tanta buona volontà, conosco gente -e aziende! Chapeau-, che hanno trovato un modo alternativo per produrle; alcuni si sono “ingegnati” realizzandole con i reggiseni (lo farò presto), con la carta forno (mmm…) con la tela delle traverse per i malati…
Flashmob: [dal dizionario Treccani]: Raduno di più persone, convocate all’improvviso in un luogo pubblico tramite Internet, e-mail o sms, per inscenare un’azione insolita, generalmente priva di scopo, e poi disperdersi rapidamente. Questo fino a febbraio. Poi, siccome la convocazione diventava difficile, l’appuntamento è stato dato laddove si poteva raggiungere, cioè sul balcone di casa. Purtroppo per poco tempo, cioè fino a quando ancora la pandemia non era esplosa con tutto il suo carico di atrocità e di morte. Portando via anche la naturale voglia di stemperare e di cantare. Quando ancora si sperava di poterne uscire presto. Dal governo, con le sue misure draconiane (questa ho dovuto cercarmela, si riferisce a provvedimenti particolarmente rigidi e severi, e trae origine dall’antico legislatore greco Dracone, che fu autore del primo codice penale della storia) impariamo che il DPCM non è una parola chiave per uscire da un’escape room, (anche se la nostra realtà quarantenata nel lockdown vi ci somiglia proprio!) ma il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (sfido chiunque, non laureato in legge, lo sapesse un mese fa, così, al volo): adesso è purtroppo chiaro ai più, perché ne sfornano un paio alla settimana… battuti solo dalla frequenza quotidiana con la quale viene cambiato il modulo di autocertificazione, senza il quale non si circola. Ma oltre alla deforestazione della Foresta amazzonica per stamparli, il rinnovo dei moduli sta diventando come la raccolta punti del supermercato: se li hai tutti, al completamento dell’album vinci un set di pentole. O materassi. E chi non ha la stampante? E se ne deve copiare uno a mano? Temo che anche questo sia parte della strategia per intrattenere la gente, che così ha qualcosa da fare…: copiare quotidianamente la nuova versione del modulo. Come quando (falso storico) si narrava che Maria Antonietta avesse suggerito di dare al popolo – in mancanza di pane – le famose brioches. Qui ci si nutre a moduli. (Tristezza, davvero, la burocrazia!!)
Sdrammatizziamo, serve.
Per sopravvivere alla quarantena: era previsto che questo fosse periodo di ristrettezze e rinunce, la Quaresima, appunto. Ma non una clausura – scelta ammirevole per anime elette. Non per tutti. Ho recentemente scritto che stiamo vivendo una Quarante(ne)sima forzata, che durerà ben più dei canonici 40 giorni. In cui dobbiamo vivere il “distanziamento sociale” (ben venga, se serve a salvare vite e ad arginare la pandemia**): paradossale ora, però, che per dimostrare di voler bene al prossimo, bisogna stargli a debita distanza. Niente baci, niente abbracci e vietati gli assembramenti, da non confondere con l’arte dell’assemblare, permessa se a casa abbiamo mobili dell’Ikea da montare.
Mi assembro se faccio comitiva con gli amici, mentre assemblo un “Pax” se monto un mobile dotato di assi, viti, scaffali e tanta pazienza. E lo posso fare anche in zona rossa (montare il mobile), area dalla quale però non sono autorizzato ad uscire. Per chi – come me – è cresciuto con le immagini del Tg che narravano della vita oltre la cortina di ferro nei Paesi dell’Est, la Zona Rossa evoca immagini inquietanti, che riportano a Berlino Est, a Stalin e ai comunisti che mangiano i bambini… quelli dell’Armata Rossa.
Ma siccome in questo momento il mondo è sottosopra, i comunisti non esistono più (probabilmente sfornano dolci anche loro, e così si giustifica la carenza di farina e lievito di birra dagli scaffali di tutti i supermercati) e, a ben guardare, sono gli unici che ci hanno aiutato concretamente sinora (che io sappia): medici e aerei con tonnellate di aiuti sono giunti, infatti, da Paesi storicamente “rossi”: Russia, Cina e Cuba. Quando tutto ‘sto casino sarà finito, potremmo chiedere se sono ancora aperte le iscrizioni al Patto di Varsavia, come minimo segno di gratitudine.

Un autobus con il tricolore italiano e la scritta: “Forza Italia” tra le strade di Hangzhou, in Cina.
Foto STR/AFP China OUT



L’Amuchina da disinfettante per frutta e verdura (d’uso casalingo, specie se si hanno bambini piccoli), è diventato un bene prezioso, “di lusso” (?): c’è gente che tiene le scorte in cassaforte. In questo bailamme, serve una corretta infodemia (questo è un lemma un po’ più ostico, è la corretta informazione sulla pandemia, che di fatto è fondamentale).
Ed è stato sdoganato pure un altro termine inglese fino a poche settimane fa era privilegio di pochi: lo smart working, tradotto spesso come “lavoro agile”: quando ne fruivo in tempi di “pace”, (pre-pandemia) solevo affermare che quel giorno avrei fatto la gazzella. Agile, appunto.
Purtroppo, ora si definisce “smart-work” qualcosa che di fatto somiglia di più all’home-office. Cioè smart-work è lavorare da casa alcuni giorni al mese, l’home-office invece è lavorare da casa sempre, adibendo le pareti domestiche ad ufficio. Ma senza entrare in inutili tecnicismi, cerco di spiegarmi con un esempio: lo smart working è un’agevolazione comodissima per chi come me lavora per obiettivi e potrebbe svolgere il proprio lavoro praticamente ovunque, che sia la cima del mio Sasso di Gordona o la cupola del duomo di Milano (basta avere un PC, un telefono ed una buona connessione internet… e possibilmente silenzio d’intorno).
Lo smart working è concesso 3 o 4 giorni al mese dalle grandi aziende: minimizza i tempi e costi di spostamento (e l’inquinamento che ne consegue). Diverso il concetto di telelavoro, che si svolge su base continuativa. Lo stanno facendo in tanti, (io ne sono una fautrice, a patto di rispettarne qualche piccola regola e mantenere i confini ben definiti), e potendo, offre davvero molteplici vantaggi: mi ritengo parte di questa élite di fortunati.

Personalmente, in questo proliferare di neologismi, ho coniato il mio personale nuovo termine: #monnezzatour, che si riferisce alla “gita” a piedi, quando la sera esco per portar fuori l’immondizia, fino al cassonetto, [duecento metri da casa (il più vicino)]: munita di certificato, (versione 184.729_bis!!) costituisce l’unico evento mondano di nota, l’istante più atteso di “evasione” della giornata, fuga momentanea dal quotidiano confinato nelle mura domestiche, com’è giusto che sia, in assenza di altri rimedi.
Un evento per cui certe volte mi vesto elegante, mi preparo e mi trucco… come se andassi ad una festa. Rinuncio solo al mio amato “tacco-12”, poco compatibile col #monnezzatour ed il trasporto di sacchi plurimi un po’ pesanti e colorati.
Altre sere, invece, esco imbacuccata ed impigiamata, tanto non ho mai incontrato anima viva: di solito, cammino sola saltellando in mezzo alla Strada Provinciale! Coi sacchi dell’immondizia tra le mani.
Can caminin spazzacamin” (ok gli effetti collaterali “buoni” della quarantena cominciano a farsi sentire, lo so)


Ps. E forse, sotto sotto, è davvero una festa, raggiungere i cassonetti, dividere la differenziata: il #monnezzatour sta diventando un momento imperdibile per allietare le giornate.
In fondo, si sa, mi piace viaggiare…

A proposito di Parole… omaggio alla grandissima inarrivabile Mina, 80 anni ieri, e alle sue Parole, Parole,

* in greco antico Stefania significa “Corona ghirlanda”
** Pandemia, paradossale, significa letteralmente “raduno di tutte le persone”.

Pubblicato da stefypedra73

Effervescente, eclettica, multitasking.. un concentrato di energia e di gioia, sorrisi come arma ... imprevedibile e curiosa. Amo leggere, viaggiare, cantare, suonare, il teatro, l'arte e ... sono mamma, e lavoro come IngegnerA (e Giornalista)

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